Limiti all’indagine del CTU: le Sezioni Unite circoscrivono il perimetro dell’eventuale nullità della perizia

Nella sentenza n. 3086/2022 le Sezioni Unite offrono un’analisi molto importante in materia di consulenza tecnica d’ufficio, delineando ulteriormente la natura dell’istituto, funzione e limiti alla luce di una rinnovata interpretazione della normativa consacrata nel codice di rito.
Un’attenta disamina sulla CTU che prende spunto da una controversia di natura bancaria.
La Suprema corte, nel dettaglio, ha fatto il punto su quali siano i poteri esercitabili dal CTU, cui il giudice demanda le indagini che si rendono necessarie ai fini del giudizio, e su che cosa può fare o non può fare il medesimo consulente nell’espletare l’incarico affidatogli.
Il tema dei poteri esercitabili dal CTU è stato esaminato, inoltre, sotto il profilo delle preclusioni cui va incontro l’attività assertiva e deduttiva delle parti nonché considerando il rapporto tra l’art. 183 cod. proc. civ. e l’art. 198 cod. proc. civ. anche in relazione alla specifica materia dell’esame contabile, vale a dire chiarendo se le regole dettate per tale ultimo esame abbiano portata derogatoria o meno rispetto alle regole cui l’attività delle parti va ordinariamente soggetta.
La fattispecie da cui scaturisce l’occasione per delineare la questione è rappresentata dai vizi inerenti a una CTU resa nell’ambito di un giudizio di responsabilità di un istituto bancario per operazioni contabili effettuate in danno di un cliente: sul punto, l’ordinanza interlocutoria della Prima Sezione Civile della Corte ( n. 9811 del 12 gennaio 2021 ) aveva rilevato un annoso contrasto giurisprudenziale in ordine al regime dei vizi inficianti “uno strumento – lato sensu istruttorio – di diffusissima applicazione, quale la consulenza tecnica d’ufficio” e ciò nel caso in cui il CTU abbia esteso il raggio della cognizione peritale oltre i limiti dell’incarico e la sentenza ne abbia recepito le conclusioni, asseritamente violando l’art. 112 c.p.c.
L’iter decisionale delle Sezioni Unite parte da assunti decisivi: la natura giuridica della nullità della consulenza tecnica d’ufficio e il conseguente rilievo officioso o su istanza di parte.
Inizialmente, vengono trattati gli orientamenti esistenti, come richiamati dall’ordinanza di rimessione.
Secondo quello tradizionale, “tutte le ipotesi di nullità della consulenza tecnica, ivi ricompresa quella – ricorrente nella specie – dovuta all’eventuale allargamento dell’indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente, nonché quella dell’avere tenuto indebitamente conto di documenti non ritualmente prodotti in causa, hanno sempre carattere relativo, e devono essere fatte valere dalla parte interessata nella prima udienza successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanate” (da ultimo, Cass., sez. III, 15 giugno 2018, n. 15747 ): in questo caso, dunque, “Il carattere relativo della nullità esclude, per vero, in radice l’ammissibilità di un rilievo officioso da parte del giudicante”.
Sul versante opposto, si colloca l’impostazione seguita dalla recente pronuncia della Suprema Corte, sez. III, 6 dicembre 2019, n. 31886 , secondo la quale “lo svolgimento di indagini peritali su fatti estranei al “thema decidendum” della controversia o l’acquisizione ad opera dell’ausiliare di elementi di prova, in violazione del principio dispositivo, cagiona la nullità della consulenza tecnica, da qualificare come “nullità a carattere assoluto”, rilevabile d’ufficio e non sanabile per acquiescenza delle parti, in quanto le norme che stabiliscono preclusioni, assertive ed istruttorie, nel processo civile sono preordinate alla tutela di interessi generali, non derogabili dalle parti”.
Quest’ultima posizione si fonda sulla considerazione che il CTU non potrebbe, nemmeno in presenza di ordine del giudice o di acquiescenza delle parti, indagare di ufficio su fatti mai ritualmente allegati da queste ultime, né acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi delle domande o delle eccezioni proposte e nemmeno procurarsi, dalle parti o dai terzi, documenti che forniscano tale prova. Unica deroga a tale regime potrebbe rinvenirsi soltanto quando la prova del fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione non possa essere oggettivamente fornita dalle parti con i mezzi di prova tradizionali, postulando il ricorso a cognizioni tecnico-scientifiche, oppure laddove la consulenza si renda necessaria per la prova di fatti tecnici accessori o secondari e di elementi di riscontro della veridicità delle prove già prodotte dalle parti.
Tale ultimo rilievo diventa essenziale al fine di cogliere, poi, il ragionamento di chiusura delle Sezioni Unite.
La sentenza n. 31886/19 evidenzia il principio secondo cui le nullità della consulenza restano sanate, se non eccepite nella prima difesa utile. Il “corto circuito” applicativo sarebbe scaturito dalla circostanza che, successivamente, il medesimo principio fosse stato esteso anche ad altre ipotesi di nullità della consulenza e, in particolare, al caso di indagini peritali su fatti estranei al thema decidendum o, più spesso, di acquisizione da parte del CTU di documenti non ritualmente prodotti dalle parti.
Particolare è la descrizione della consulenza tecnica, ideale incipit del lungo percorso interpretativo della sentenza: “la nomina del consulente tecnico d’ufficio costituisce lo strumento, come bene si è detto in dottrina, per mezzo del quale il giudice esce dalla torre di cristallo nella quale lo pongono l’operare congiunto del principio dispositivo e delle preclusioni istruttorie e riesce a rompere il diaframma tra gli atti di causa e la realtà materiale che egli può di regola conoscere solo per il tramite dell’attività delle parti”.
Le Sezioni Unite affrontano un vero e proprio esame verticale della questione, orientandosi tra le norme processuali in tema di nullità, e fanno proprio il principio generale di partenza : il consulente non può estendere il raggio delle proprie investigazioni ai fatti costitutivi della domanda e, oppostamente, ai fatti modificativi o estintivi di essa che non abbiano formato oggetto dell’attività deduttiva delle parti.
Detto principio, tuttavia, merita – ad avviso della Corte – di essere mitigato: qui si innesta un ulteriore tassello argomentativo, ideologicamente strutturato.
Viene fuori, infatti, un concetto che tende a sorreggere l’intera pronuncia: “La necessità, invero, di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo che non è e non può essere rigida applicazione di regole, segnatamente, di ordine formale che quel diritto ingiustamente penalizzino, ma deve mirare a garantire attraverso una pronuncia sul merito della contesa, l’interesse delle parti al conseguimento di una decisione per quanto più è possibile giusta”.
Sulla base di tale presupposto ordinamentale, diventa imprescindibile – nell’economia del ragionamento delle Sezioni Unite – la distinzione tra potere di allegazione e potere di rilevazione: il primo compete alla parte, dal momento che si fonda sul principio della domanda e sul correlativo principio dispositivo che individua esclusivamente nella parte medesima il soggetto che può disporre, anche in seno al processo, del proprio diritto; il secondo, invece, può essere oggetto di una condivisione tra la parte e il giudice, atteso che il generale potere che compete a questo di rilevare le eccezioni in senso lato si traduce nella rilevazione anche dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa ove questi, sebbene non precedentemente allegati dalla parte, emergano tuttavia dagli atti di causa.
Ne discende che “è immune da vizi la decisione che, recependo le risultanze peritali, ne faccia propri e ne valorizzi anche quei profili di essa che evidenzino fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa che, ancorché non dedotti dalla parte, siano stati accertati dal consulente nell’espletamento dell’incarico”.
Si muove, dunque, un passo nel percorso ermeneutico intrapreso: considerato il potere di procedere nei limiti dei quesiti sottopostigli all’investigazione dei fatti accessori, il CTU può estendere il proprio giudizio anche ai fatti che, sebbene non dedotti dalle parti, siano pubblicamente consultabili, non essendovi ragione di vietare in tal caso al consulente, pur se ne maturi la conoscenza aliunde, di esaminare i fatti conoscibili da chiunque.
E, da qui, ancora una presa di distanza dalla pronuncia n. 31886/19, nella parte in cui quest’ultima fa propria la tesi dell’applicabilità alle attività consulenziali del regime preclusivo imposto alle parti, affermando che – se fosse consentito al CTU di acquisire dalle parti o da terzi documenti anche dopo lo spirare delle preclusioni istruttoria – ciò determinerebbe un’interpretatio abrogans dell’art. 183, sesto comma, c.p.c., con l’effetto stravolgente di violare il principio di parità delle parti.
Le Sezioni Unite, per confutare la tesi in parola, ribadiscono innanzitutto che – nel passaggio dal codice di procedura civile del 1865 a quello vigente – il perito ha visto profondamente mutata la propria natura, fregiandosi ora di un’investitura pubblicistica, che gli deriva dall’essere designato dal giudice e non dalle parti, e dall’assunzione dello status di ausiliario di giustizia.
Nel quadro così delineato, anche il consulente potrà procedere, nei limiti visti, agli approfondimenti istruttori che, prescindendo da ogni iniziativa di parte, appaiono necessari per rispondere ai quesiti posti dal giudice: ciò vale a maggior ragione nell’ambito delle consulenze ad alto tasso di specializzazione, in materie che richiedono l’esame di registri e documenti contabili.
Le Sezioni Unite mostrano di volersi distaccare anche dall’interpretazione tradizionale dell’art. 198 c.p.c., norma che – al secondo comma – consente al CTU, acquisito il consenso delle parti, di poter “esaminare anche documenti e registri non prodotti in causa”, vietandogli tuttavia di poterne “far menzione nel processo verbale o nella relazione di cui all’art. 195” se le parti non prestino ancora il proprio consenso.
Le Sezioni Unite rilevano che “se, come si crede dall’interpretazione corrente, nell’esegesi dell’art. 198, comma 2, cod. proc. civ. si reputa che i documenti non prodotti esaminabili e, se del caso, utilizzabili dal consulente, previo consenso delle parti, siano i documenti a comprova dei fatti accessori, la norma smarrisce ogni connotato di originalità e diviene un inutile doppione delle attività che il consulente è ordinariamente abilitato, in ragione del mandato ricevuto, a svolgere senza bisogno del consenso delle parti”.
Al contrario, la specialità dell’art. 198 c.p.c. sta nel consentire espressamente al consulente contabile l’esame di documenti non prodotti in giudizio, anche se questi riguardino fatti principali ordinariamente soggetti ad essere provati per iniziativa delle parti.
Le Sezioni Unite chiudono il cerchio argomentativo, affermando che – dentro il reticolato delle invalidità processuali di cui agli artt. 156 e segg. c.p.c. – “occorra confermare … l’orientamento tradizionalmente invalso nella giurisprudenza in materia di questa Corte secondo cui i vizi che infirmano l’operato del CTU sono fonte di nullità relativa e rifluiscono tutti invariabilmente sotto il dettato dell’art. 157, comma 2, cod. proc. civ.”.
Posto il principio generale, la Corte – in conclusione – ribadisce la necessità che l’attività consulenziale si svolga sempre nel contraddittorio delle parti, rilevando che “giacché il CTU che, nei limiti delle indagini commessegli dal giudice, estenda il perimetro delle proprie attività e proceda ad accertare fatti non oggetto di diretta capitolazione di parte o ad esaminare documenti, del pari, non introdotti nel giudizio delle parti, senza darsi previamente cura di attivare su di essi il necessario confronto processuale, non lede, anche nel mutato ordinamento processuale scaturito dalla novella del 1990, un interesse del processo, in guisa del quale quella attività possa giudicarsi affetta da un vizio di nullità assoluta, ma lede un interesse, pur primario delle parti in quanto posto a tutela del diritto di difesa delle medesime, di cui le parti possono tuttavia pur sempre disporre, poiché compete solo a loro il potere di farne valere la violazione e di eccepire la nullità dell’atto che ne è conseguenza a mente dell’art. 157, comma 2, cod. proc. civ.”.
Resta fermo, tuttavia, il limite della domanda, in ossequio al principio dispositivo, che costituisce un vincolo insormontabile anche per il giudice.
Pertanto, in linea con tale impostazione, le Sezioni Unite evidenziano che, qualora la consulenza indaghi su temi estranei all’oggetto della domanda e pervenga pure al risultato di stimare la fondatezza della pretesa esercitata dall’attore in base a fatti diversi da quelli allegati, l’accertamento si colloca al di fuori dei limiti della domanda: ne scaturisce un motivo di nullità rilevabile d’ufficio o che può farsi valere in sede di impugnazione, ai sensi dell’art. 161 c.p.c.

Sentenza

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