I NUOVI LEGAMI FAMILIARI TRA GIURISPRUDENZA CEDU E IL D.D.L. CIRINNA’

I NUOVI LEGAMI FAMILIARI TRA GIURISPRUDENZA CEDU E IL D.D.L. CIRINNA’
Una nuova stagione per la tutela dei diritti

Dopo un iter tumultuoso, l’11 maggio 2016 è stato finalmente approvato il Disegno di legge Cirinnà, recante norme sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”.
Una legge che ha come obiettivo quello di agganciare il nostro Paese all’Europa e all’Occidente, atteso che dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, firmatari della CEDU, oltre la metà offre alle unioni civili tutela equivalente o comunque simile al matrimonio.
La necessità di emanare una normativa specifica in subiecta materia muove essenzialmente dall’obbligo di riconoscimento dei diritti contenuti nella CEDU, obbligo che l’Italia ha assunto con la ratifica del Trattato. Un riconoscimento imposto, altresì, dall’art. 6 del Trattato di Lisbona che attribuisce ai diritti tutelati dalla Convenzione l’efficacia giuridica propria del diritto dell’Unione.
E’ evidente, infatti, che la tutela dei diritti, seppure costituzionalmente riconosciuti, necessita di un approdo normativo, di un intervento concreto che impedisca ogni futura ed eventuale violazione.
La nostra Corte Costituzionale, già con sentenza 138/2010, definiva l’unione tra omosessuali quale “stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, riconducendo tale unione nell’alveo delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost.

La Corte di Cassazione, poi, con la sentenza n. 4184/2012, consapevole del ruolo imposto dal recepimento del diritto di Strasburgo, ha offerto una lettura evolutiva del concetto di “famiglia” mediante il richiamo alla sentenza Schalk and Kopf c/ Austria del 24 luglio 2010, con cui la Corte Edu ha esteso espressamente il diritto alla “vita familiare”, di cui all’art. 8 CEDU, alle coppie omosessuali.

Secondo la Corte di Strasburgo la lettura sistematica degli artt. 9 della Carta di Nizza e 12 della CEDU, infatti, non consente più di ritenere l’applicazione dello stesso art. 12 limitato ai soli casi di matrimonio tra persone di sesso opposto. Tale affermazione ha consentito alla Corte di Cassazione di osservare che la lettura convenzionalmente orientata dell’art. 12 CEDU fa venir meno, quale requisito minimo indispensabile per l’esistenza del matrimonio, la diversità di sesso dei nubendi, rimuovendo così l’ostacolo al riconoscimento del diritto al matrimonio omosessuale, la cui attuazione rimane comunque, precisa la Corte, riservata “alle libere opzioni dei Parlamenti nazionali”.
Nonostante il chiaro indirizzo delle Corti, la persistente inerzia del legislatore italiano ha comportato un’evidente violazione di diritti fondamentali, non più tollerabile da Strasburgo, che nella sentenza Oliari e altri c/ Italia, 21 luglio 215, ha affermato: “I ricorrenti si trovano pertanto nella insoddisfacente situazione di aver ottenuto il riconoscimento da parte della Corte costituzionale di godere ai sensi della legislazione italiana di un incipiente “diritto fondamentale” inerente a un importante aspetto dello status giuridico che doveva essere accordato alla loro vita privata e familiare, ma tale incipiente “diritto fondamentale” non era stato attuato adeguatamente e concretamente dal competente ramo del Governo, ovvero il legislatore”.
La sentenza Oliari è cristallina: l’art. 8 CEDU è stato violato perché l’Italia, indifferente e sorda alle pressioni e ai moniti delle più alte istanze giurisdizionali, nonché ignorando le tensioni sempre più acute della società civile, ha rifiutato qualunque tutela alle coppie omosessuali.
La conseguenza di tale condanna non poteva, dunque, che essere un immediato e forte intervento delle autorità competenti attraverso l’approvazione di una legge che mettesse fine a tale vulnus di tutela.

Il riconoscimento di diritti può avere un prezzo?
L’approvazione del disegno di legge Cirinnà è avvenuto, tuttavia, accettando un pesante compromesso che ha portato allo stralcio dell’art. 5 del Ddl che estendeva a ciascuna parte dell’unione civile la possibilità di adottare il figlio dell’altro, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. b), l. 184/83.
Non può non osservarsi come lasciare inalterato l’art. 5 non avrebbe stravolto la “famiglia tradizionale”, né gli avrebbe tolto alcuna tutela, ma sicuramente avrebbe offerto una tutela minima, non tanto ai genitori, quanto ai figli.
Non per nulla, all’indomani dell’approvazione in Senato, il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, dopo aver espresso il proprio apprezzamento per il sì del Senato, ha manifestato l’esigenza di andare oltre: “credo che il prossimo passo sarà una legge che permetta la stepchild adoption in modo da eliminare questa restante discriminazione e allineare pienamente la legislazione italiana alla giurisprudenza della Corte europea per i diritti umani”.

La Corte di Strasburgo ha, infatti, più volte rilevato che nel momento in cui un Stato contraente contempli l’istituto dell’adozione del figlio del partner a favore delle coppie conviventi di sesso opposto, il principio di non discriminazione fondata sull’orientamento sessuale impone la sua estensione alle coppie formate da persone dello stesso sesso (causa X c/ Austria 19.02.2013).

Nel caso X c/ Austria si rilevava una difformità di trattamento tra le coppie eterosessuali, coniugate o conviventi, alle quali viene consentita l’adozione co-parentale e le coppie omosessuali, la cui unione è comunque disciplinata in Austria, alle quali tale possibilità veniva preclusa.
Ebbene, la Corte, pur rilevando che dall’art.8 CEDU non deriva un immediato diritto all’adozione, ritiene che, tuttavia, nel momento in cui gli Stati si dotino di strumenti per il soddisfacimento di tale diritto, essi devono essere applicati in modo non discriminatorio ai sensi dell’articolo 14.
Inoltre, particolarmente interessante nel caso esposto è il fatto che la Corte ritenga che la lesione del divieto di discriminazione non riguardi soltanto la donna a cui era stata negata la possibilità di adottare il figlio della partner, bensì tutti i ricorrenti (le due donne e il figlio di queste): “se a prima vista può sembrare che la disparità di trattamento in questione riguardi soprattutto la prima ricorrente, che non è stata trattata allo stesso modo in cui sarebbe stato trattato un partner di una coppia eterosessuale non sposata che volesse adottare il figlio dell’altro, la Corte osserva che i tre ricorrenti vivono insieme una vita famigliare e hanno presentato la domanda di adozione al fine di ottenere il riconoscimento giuridico di tale vita famigliare. In queste condizioni, la Corte ritiene che i tre ricorrenti siano stati direttamente lesi dalla disparità di trattamento in questione e possano dunque sostenere di essere vittime della violazione dedotta”.
Ed è proprio questo il punto cruciale della questione: la nozione di famiglia. Un concetto che negli anni è mutato assumendo diverse accezioni e significati.
Ma la famiglia è innanzitutto il luogo dove cresce, dove si forma il minore, dove si instaurano delle relazioni affettive che dovrebbero esulare da qualsivoglia istanza etica, politica e religiosa per il semplice fatto che tutti i limiti che possiamo mettere alla definizione di famiglia si traducono spesso in una lesione del superiore interesse del minore.
Il divieto di adozione co-parentale comporta essenzialmente l’impossibilità per il minore di vedere riconosciuto il rapporto che ha con entrambi i partner.

La stessa Corte di Strasburgo, pur riconoscendo che dall’art. 8 CEDU non deriva un diritto dei genitori ad adottare, tuttavia insiste nell’affermare il diritto del minore ad avere una famiglia, a vedersi riconoscere quelle relazioni affettive che rispondono al suo best interest.

La tutela dei legami familiari diventa poi necessaria in quelle famiglie omosessuali dove i bambini non nascono da precedenti unioni eterosessuali di uno dei partner, bensì dal ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita a cui spesso la coppia accede nell’ambito di un progetto genitoriale comune.
Il problema, definiamolo così, è essenzialmente riconducibile alla surrogazione di maternità che da luogo alla “genitorialità sociale”, termine questo coniato dai nostri Tribunali per dare una forma di protezione ad un legame che c’è, esiste, coinvolge un minore e non può essere ignorato.
La maternità surrogata è vietata in Italia, così come in molti paesi europei.
La Corte di Strasburgo ha dovuto affrontare la questione e l’ha fatto proprio nell’ottica del superiore interesse del minore, guardando essenzialmente alla formazione di quel legame tipico di una “famiglia” che in quanto tale merita di essere tutelato e protetto.
In particolare, con le sentenze Menneson c/ Francia e Labassee c/Francia, entrambe del 26.06.14, la Corte ha appunto rilevato che il margine di apprezzamento di cui indubbiamente godono gli Stati sulle questioni eticamente sensibili si riduce nel momento in cui venga in gioco un legame di parentela che coinvolge un aspetto fondamentale della vita degli individui “Il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione influenzerebbe inevitabilmente la vita familiare dei minori, i cui interessi devono essere sempre considerati come preminenti”.
In entrambi i casi, le questioni sottoposte al giudizio della Corte riguardavano il rifiuto di attribuire riconoscimento legale in Francia ai rapporti genitoriali che erano stati legalmente stabiliti negli Stati Uniti tra minori nati da maternità surrogata e le coppie che si erano sottoposte a tale trattamento. La Corte ha osservato che le autorità francesi, sebbene fossero consapevoli che i minori erano stati identificati negli Stati Uniti come figli del Sig. e della Sig.ra Mennesson e del Sig. e della Sig.ra Labassee, avevano tuttavia negato loro quello status secondo la legge francese. La Corte ha riconosciuto applicabile l’art. 8 sia per l’aspetto della “vita familiare, che della “vita privata”.
In primo luogo, senza dubbio, i coniugi si erano occupati dei figli dalla loro nascita come genitori ed avevano vissuto insieme in un modo indistinguibile dalla “vita familiare” nel senso corrente del termine.
In secondo luogo, il diritto all’identità è parte integrante del concetto di vita privata e c’è uno stretto legame tra la vita privata dei minori nati a seguito di maternità surrogata e la determinazione legale della loro origine.
L’importanza del superiore interesse del minore e dei legami familiari di fatto, e non solo di diritto, sono al centro di un’altra, molto discussa, decisione della Corte adottata nei confronti dell’Italia, il famoso caso Paradiso Campanelli, 27 gennaio 2015.
Il caso prende avvio a seguito di alcuni provvedimenti adottati dalle autorità italiane nei confronti dei coniugi Campanelli che avevano fatto ricorso in Russia alla maternità surrogata. In particolare, una volta giunti in Italia con il bambino, i coniugi si vedevano rifiutare la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita e venivano indagati per i reati di falso di cui agli art. 479 e 489 c.p.
Inoltre, veniva aperto un procedimento dinanzi al Tribunale per i Minorenni di Campobasso per la dichiarazione dello stato di abbandono e di adottabilità del minore, all’esito del quale, avendo accertato che il bambino non era nemmeno figlio biologico del padre, veniva disposto l’immediato allontanamento del minore, la cessazione di qualsiasi rapporto con i genitori e l’affido ad una casa famiglia (dove il bambino è rimasto per ben due anni).
Nel caso di specie, la Corte ha osservato che “La nozione di «famiglia» di cui all’articolo 8 non si limita alle sole relazioni basate sul matrimonio, ma può comprendere altri legami «famigliari» de facto, quando le parti convivono al di fuori di qualsiasi legame coniugale e una relazione è sufficientemente costante”.
La Corte si sofferma sulla necessità di adottare o meno la misura di allontanamento del minore quale “ingerenza” nella vita privata, rilevando che si deve avere riguardo al giusto equilibrio tra i vari interessi coesistenti – quello del minore, quelli dei due genitori e quelli dell’ordine pubblico – tenendo conto tuttavia del fatto che l’interesse superiore del minore deve costituire la considerazione determinante.
Infine, la Corte, richiamando la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia del 20 novembre 1989, osserva che il minore ha ricevuto una nuova identità soltanto nell’aprile 2013, il che significa che è stato invisibile per più di due anni: “ora, è necessario che un minore non sia svantaggiato per il fatto che è stato messo al mondo da una madre surrogata, a cominciare dalla cittadinanza o dall’identità che rivestono un’importanza primordiale”.
Conclusivamente, nel caso appena esposto, nonostante la Corte non si pronunci sulla legittimità o meno del divieto di maternità surrogata, tuttavia, impone ai giudici nazionali di valutare sempre e comunque il superiore interesse del minore, soprattutto laddove si voglia adottare una misura estrema quale l’allontanamento familiare, e nel fare ciò la Corte utilizza appunto un concetto di vita familiare ex art. 8 particolarmente esteso volto a ricomprendere anche i legami di fatto.

L’input di Strasburgo non ha mancato di dare i suoi risultati.
Infatti, la Corte di Cassazione, sez. IV penale, con la recentissima sentenza n. 13525/2016 del 5 aprile 2016 ha statuito che non commettono reato i genitori del bambino nato da madre surrogata se nel paese estero (nel caso di specie l’Ucraina) tale pratica è lecita.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso della Procura della Repubblica che voleva condannare i coniugi per violazione della Legge n.  40/2014 sulla fecondazione assistita e false dichiarazioni per quanto riguarda le generalità del neonato e per falsità in atto pubblico.
La Corte Costituzionale è intervenuta ancora con sentenza n. 76 del 7 aprile 2016, nella quale ha dichiarato inammissibile per meri motivi procedurali la questione di legittimità costituzionale promossa dal Tribunale per i minorenni di Bologna in relazione agli artt. 35 e 36 della legge n. 184/1983 nella parte in cui non consentirebbero – alla stregua del “diritto vivente” – di valutare la rispondenza all’interesse del minore adottato all’estero del riconoscimento della sentenza straniera pronunciante la sua adozione in favore del coniuge del genitore biologico.
In realtà, la Corte motiva la sua decisione riconducendola all’inadeguata individuazione, da parte del giudice rimettente, del contesto normativo, atteso che il giudice a quo ha erroneamente ritenuto applicabile al caso oggetto del suo giudizio la disciplina in tema di riconoscimento delle sentenze di adozione internazionale di minori, riconducendo la fattispecie da cui origina il giudizio principale all’art. 36, co. 4, l. n. 184/1983, che estende il controllo giudiziale del Tribunale per i minorenni ad una particolare ipotesi di adozione di minori stranieri in stato di abbandono da parte di cittadini italiani. Invero, nel caso di specie, atteso che la ricorrente al momento dell’adozione era ancora cittadina americana, avrebbe dovuto applicarsi la disciplina relativa al riconoscimento di una sentenza straniera, pronunciata tra stranieri.
Si tratta, dunque, di una decisione procedurale e non di merito, che nulla dice in ordine alla legittimità o meno della stepchild adoption.
L’intervento di Strasburgo con la citata sentenza Paradiso Campanelli ha assunto un rilievo determinante nella recentissima pronuncia del Tribunale per i Minorenni di Roma del 23.12.2015 con cui è stata disposta l’adozione co-parentale a favore del partner omosessuale facendo ricorso all’adozione speciale ex art. 44, lett. d) l. 184/83. Il Collegio, richiamando i principi di diritto affermati a Strasburgo rileva che “i bambini generati con ricorso alla maternità surrogata sono soggetti ad uno stato di incertezza giuridica, ove il loro Stato di appartenenza non riconosca la loro identità al suo interno, privandoli ingiustificatamente della figura genitoriale di riferimento e mettendoli nella condizione di fornire una duplice rappresentazione di sé, valida in un caso solo socialmente e nell’altro solo legalmente”.
Il modo in cui il bambino è stato generato non è – né può essere – di ostacolo al riconoscimento giuridico del rapporto che lo lega al padre “sociale”, a ciò opponendosi l’interesse del bambino alla stabilità e continuità degli affetti, che prevale su ogni considerazione, relativa al rilievo dell’ordine pubblico interno o internazionale: “Non sono né il numero né il genere dei genitori a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini, bensì la loro capacità di assumere questi ruoli e le responsabilità educative che ne derivano”.
I principi fatti propri da Strasburgo e il riconoscimento di determinati legami affettivi da parte delle nostri Corti impone un intervento del legislatore, affinché venga riconosciuta una tutela minima a dei bambini che non possono, e non devono, continuare a rimanere invisibili.